È uno dei libri più studiati tra i libri sapienziale. Non dobbiamo però farci fuorviare dalla mentalità popolare che ci parla di un Giobbe molto paziente… mai affermazione fu così falsa! A meno di non considerare un uomo che si rivolge a Dio con rabbia, contestazione e ribellione, come un uomo paziente… Secondo argomento della mentalità popolare, che il libro parli di come affrontare la sofferenza e quindi con molta pazienza… anche qui siamo nell’errore!
Il libro, scritto in ebraico colto e di grande stile letterario, fin dal titolo, ci mette invece su una altra strada per capire: il nome Giobbe potrebbe significare yiobb come pronome interrogativo yo unito a ebb, che significa padre, dando origine alla domanda, chi è il padre; una strada bipartita però, perché la parola yiobb può anche essere letta come joyeb, che significa nemico… i due contrasti di significato, tra padre e nemico, mettono il lettore sull’avviso: il titolo del libro ci porta ad una unica domanda rivolta a Dio, chi sei, padre o nemico, per me? Mi sembra che la lettura del libro di Giobbe possa essere utile quindi per riflettere sul nostro rapporto con Dio, attraverso la nostra vita.
Chi sei Dio, padre o nemico, per me? Entriamo nel vivo del testo. Quale immagine aveva Giobbe di Dio? Di un Dio cui sacrificava e da cui otteneva figli, beni e ricchezza. Un dio dello scambio? È proprio il sospetto di Satana, che in 1,9 dice “Forse che Giobbe teme Dio per nulla?”. Satana spera che Giobbe segua la teologia della retribuzione, al giusto la buona sorte e al malvagio le disgrazie… Perché di fronte alla perdita di tutto ciò che ha, sarà una preda più facile della disperazione, dato che temeva Dio solo per non perdere i suoi beni!
Il dialogo di Dio con Satana non deve meravigliarci e neppure il fatto che Dio sembra abbandonare al maligno il suo servo fedele Giobbe: il testo, scritto in epoca post esilica, riflette la crisi attraversata dal popolo di Israele, dopo la deportazione a Babilonia; sembra che Dio ci abbia abbandonati al male, ma è davvero così? In realtà, come diceva il professore da cui ho imparato tutto questo, don Michelangelo Priotto, il testo ci racconta di un momento in cui ci troviamo tutti nella vita, anche più di una volta… Il momento in cui ci chiediamo, Dio è nemico o padre? Momento in cui la nostra fiducia in Dio deve trovare fondamenta nuove, anche al di là delle evidenze simboliche della vita (salute, felicità familiare, riuscita nel mondo). Satana raffigura il dialogo interiore, che si fa strada in noi e avvia la prova, per capire davvero in che relazione siamo con Dio. Il libro di Giobbe non è stato decisivo… Il fatto che Gesù racconti la parabola dei vignaiolo omicidi ci dice che la teologia della retribuzione è davvero radicata nella nostra mentalità.
Quando le evidenze simboliche falliscono, sentiamo il silenzio di Dio, riecheggia il salmo 22, mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato? Il silenzio di Dio, che ci sembra di sentire, forse è un silenzio iniziato tanto tempo prima, quando abbiamo iniziato a pensare di poter scambiare devozioni a Dio, in cambio di una vita felice, di cui in fondo ci attribuivamo il merito… I segni, cui attribuivamo il benvolere di Dio verso di noi, rimangono portatori di senso per la fede che noi abbiamo, non per il segno in sé: l’acqua del battesimo è acqua del rubinetto, il pane eucaristico è pane comune, le nostre sorti nella vita sono avvenimenti comuni. È la fiducia in Dio che abbiamo che li rende segni di fede, dove il segno è contemporaneamente utile per la nostra corporeità ma ambiguo nelle lettura che se ne può dare.
Dunque Giobbe teme Dio per nulla? Giobbe, anche dopo essere stato colpito nella sua persona, ancora è legato alla retribuzione (v.2,10). Accettiamo il bene come il male, Dio ci ripaga per quello che facciamo? La voce della moglie è nuovamente la voce del dialogo interiore, del confronto con la teologia corrente. Questa domanda inizia a risuonare nella mente di Giobbe, dove è il mio male? Quando gli amici vanno da lui, rimangono in silenzio, perché la loro unica domanda sarebbe, che cosa hai combinato di male per meritarti questo, allora e solo allora, sentendosi costretto tra due certezze, non aver fatto nulla di male e il peso delle sue disgrazie, Giobbe maledice il giorno della sua nascita.
Gli amici di Giobbe sono lì infatti, e si vedrà nei dialoghi successivi -gli parlano solo dopo la sua maledizione, segno esteriore del male che ha commesso e che ha comportato la sua disgrazia -solo per dirgli, sei proprio sicuro di non aver commesso nulla di male? Vedi come sei messo, è evidente che… (v 6,29 contrapposto a 8, 3-4): gli amici difendono la teologia della retribuzione. Il racconto di Giobbe vuole proprio mettere in discussione questo approccio.
Giobbe però sa di non essere malvagio, di non avere commesso colpe verso Dio; e solo lui lo sa, nemmeno i suoi amici più cari riescono a riconoscerlo… Chi è nel male, sente la solitudine, il peso. Se è falsa la convinzione che lo aveva sostenuto fin lì, allora il male da dove viene, se lui è innocente? Viene da Dio? Dio è quindi nemico? Qui dobbiamo allontanarci dal sospetto che la sofferenza inflitta a Giobbe sia la prova da attraversare per riottenere il bene da Dio: sarebbe un sospetto proprio da teologia della retribuzione, pago con un po’ di dolore il male che ho fatto e Dio, quando ho pagato abbastanza, mi restituisce il bene. La sofferenza è male, male che viene dal mondo e che può essere causato anche da noi: va attraversata, sopportata, non glorificata come una offerta…
Giobbe però, di fronte al dubbio, finisce per non accettare il male, come prezzo da pagare: è innocente e lo sa. La teologia della retribuzione, tanto ben spiegata dagli amici, scricchiola. Giobbe interpella Dio a gran voce, con rabbia: afferma la sua ragione 9,15; Dio fa perire il giusto e il reo 9,22; mi ritrovo solo 9,35; è bene per Dio opprimermi v.10,3. Nei tre cicli di discorsi che fa con gli amici, sempre arrabbiato, arriva alla fine a rendersi conto che la teologia della retribuzione non è il vero del rapporto con Dio… v. 27,5. Anche se il percorso di Dio gli è misterioso e incomprensibile, non può credere che Dio lo creda colpevole, lui è giusto. Ancora non capisce come, ma non vuole essere empio verso Dio. Arrabbiato sì, ma non crede che il male venga da Dio.
Nel libro si inserisce prima un nuovo amico, Eliu, poi la risposta di Dio. Eliu, che significa di Dio, propone a Giobbe la contemplazione dell’opera di Dio, che non possiamo comprendere del tutto e nemmeno mercanteggiare il suo operato verso di noi… v.37,23 Egli non opprime.
La risposta di Dio, in due discorsi, brevemente inframmezzati da due risposte di Giobbe, è in realtà un unico discorso: l’uragano che precede l’inizio del discorso è una teofania, avallata anche da fatto che per la prima volta in tutto il libro si usa il tetragramma JHWH. E’ proprio Dio che parla. E che ricorda a Giobbe tutta la padronanza del creato e insieme il dono che ne ha fatto all’uomo. Quale teologia suggerisce Dio a Giobbe? Giobbe si sente piccolo a fronte della immensità del dono ricevuto, la sua vita, che pure nella immensità del mondo è ancora una piccola cosa… Dio è attento a tutte le creature, di cui ha raccontato prima e non lo fa per scambio, ma per gratuità: che scopo avrebbe altrimenti il tramonto che nessuno vede v.38, 24 o la pioggia nella steppa che fa spuntare germogli v.38, 26-27? Dio ama l’uomo e il cosmo non per calcolo, ma per gratuità.
Il nostro essere creature ci dice che siamo parte della creazione, non tutto. L’errore di voler mercanteggiare il bene ricevuto, è lo stesso di metterci al pari di Dio. Siamo creature, in questo amate da Dio, nel nostro limite. Se Dio ci ama come creature, l’errore è volerci elevare sopra il creato e sentire il nostro limite creaturale come costrizione divina. Dio è padre, ci ama gratuitamente. Il male e la sofferenza che proviamo nella vita possono essere percorsi in cui mettiamo alla prova la nostra convinzione su Dio, se è Padre oppure se è nemico, se ci ama gratuitamente o se noi lo amiamo solo per timore… ma non vanno ricercate o presentate come offerta, un modo di sopportare il male, che sottointende che il male alla fine venga da Dio…
Giobbe riconosce Dio come Padre, riconosce il suo percorso, cap 42,1-6: è la teologia dell’affidamento e della fiducia, al di là delle evidenze simboliche della vita. Dalla conoscenza di Dio per sentito dire, fino a i miei occhi ti hanno veduto: un percorso di esperienza nella vita in cui ci possiamo trovare anche più volte nelle vita.