4 incontro – il costituirsi del popolo di Dio e la morte di Mosè Es 19, 1-9 – Dt, 34, 1-12
Il tema di questo quarto incontro nasce da una riflessione sulla identità: come vive il suo essere il popolo di Dio Israele, al tempo di Mosè? Come la formazione della loro identità incide sul nostro essere popolo di Dio? Come possiamo farci aiutare dalla Parola di Dio nel nostro costituirci come popolo di Dio oggi, in tempi incerti (come quelli degli israeliti, per intenderci!)?E infine, come il nostro avvicinarci alla Terra Promessa rende testimonianza della nostra identità qui e oggi? Da questa sollecitazione, riflettere sulla identità del credente, intesa come personale e comunitaria insieme, nasce l’accostamento dei due brani che vi proponiamo. Proviamo a tirare una coordinata di cammino, dall’Egitto a noi, passando da questo tema…
Come sempre, partiamo dalla analisi del brano, da diversi punti di vista. Questo brano di Esodo è considerato l’inizio del racconto della teofania; tuttavia, essere prima di questo racconto, mette sempre un po’ in ombra il senso di ciò che esprime e precisamente l’annuncio programmatico della Alleanza con Dio. Il popolo è arrivato ai piedi del Sinai ed è quindi uscito dal deserto, siamo nel cuore dell’Esodo: qui inizia la terza grande parte del libro, che ha come centro la montagna del Sinai, centro geografico, ma soprattutto teologico. Come nella seconda parte, dedicata al cammino nel deserto, il materiale di partenza per il passaggio dalla oralità alla scrittura è composito (le narrazioni sul Decalogo, sul codice della Alleanza, sulle disposizioni di culto), perché il Sinai concentra tutto ciò che di più significativo è stato pregato, raccontato, frutto di riflessione della tradizione del popolo israelita. Non possiamo cercare di ripercorrere le origini dei testi: su questo passaggio iniziale, come per tutta la terza parte, dobbiamo guardare al disegno teologico del redattore finale, che collega tutti i temi sulla promessa della alleanza e sulla figura carismatica di Mosè.
Il primo passo che prenderemo in analisi è definito come l’annuncio dell’Alleanza; di solito ci si concentra sulla teofanie successive, che mostreranno la presenza di Dio nel creato, nel dono del Decalogo e nella stipula della alleanza, ma questo passo descrive bene come potrebbe essere il popolo di Dio e le parole sono affidate a Mosè da Dio stesso. Sebbene sia comprovato che questo passo sia una inserzione successiva, sappiamo che questo tipo di inserzioni (come il cantico del Mare) è il frutto di ulteriore riflessione teologica, come dimostra la risposta del popolo al v.8. Il passo inizia con una collocazione temporale e geografica (il monte Sinai e tre mesi dopo, v.1) e anche in questo luogo e tempo, la iniziativa gratuita di Dio illumina il popolo: il rapporto tra Dio e il suo popolo è definito tutto dall’uso degli aggettivi possessivi e del dativo di possesso nei vv.4-5-6. All’interno di questo rapporto, c’è la descrizione della identità di Israele: il popolo può essere tale, perché ha visto, ha già visto l’impegno di fede che Dio ha preso con loro. Jhwh non è soltanto Colui che è ma anche colui che fa essere, come ha dimostrato la liberazione dalla schiavitù. La descrizione della identità inizia con la liberazione e la immagine dell’aquila , V.4, che richiama almeno 3 importanti significati: Dio costruisce il nido per il suo popolo, Dio guarda dall’alto le vicende del suo popolo, ma soprattutto Dio si espone alle frecce, tenendo in salvo il suo popolo sopra le sue ali; il rabbino Rashi, acronimo di Rabbi Shlomo Yitzhaqi, vissuto intorno all’anno 1000 in Francia, nel suo commento all’Esodo, vedeva in questa immagine l’espressione dell’infinito amore di Dio che preferisce essere colpito lui stesso, piuttosto che esporre noi. San Paolo rileggerà, nella Lettera ai Romani la epifania di questo amore divino nella morte di croce di Gesù. Il v. 5 inizia con una particella avversativa a segnare l’ingresso consapevole nella identità del popolo di Dio: se fin qui è stato tutto un protestare, essere portati a vedere il passaggio, protestare, essere accompagnati nelle avversità del cammino, protestare, riconoscere di essere cari a Dio nelle necessità della vita, ora è il momento della alleanza. Il se per noi ha un significato ipotetico e condizionale perché siamo figli della tradizione linguistica latina, che introduce solo ipotesi o condizioni da verificare cartesianamente… Qui invece, in senso semitico, indica la possibilità, quel significato che noi diamo alla costruzione perifrastica, è possibile che, potrebbe accadere che, c’è la possibilità di: Dio apre possibilità, lasciando a noi la scelta di entrare in questa identità. Ed è anche una significativa lezione per noi… Che cosa sarebbe invece di vedere condizioni e ipotesi da verificare, noi vedessimo possibilità nelle relazioni umane? Quando andremo incontro ascoltando la voce di Dio e custodendo l’alleanza presente, allora il popolo diventerà proprietà particolare, regno di sacerdoti, nazione santa. I tre termini descrivono nuovamente una relazione affettiva, non una descrizione di stato: l’amore di Dio non istituirà un possesso, un popolo santificato e una nazione intoccabile per confini, che sarebbero descrizioni di situazioni. L’amore di Dio è una relazione in cui il popolo è tesoro personale: il termine ebraico sgulla ricalca il termine accadico, sikiltu, proprietà come qualcosa di caro e personale, prezioso perché è amato. Non è amore a discriminazione del resto degli altri popoli, ma amore vive di responsabilità e impegno di testimonianza tra tutti i popoli. Regno di sacerdoti è termine che spiega il compito sacerdotale di testimonianza della comunità tutta: ben sapendo che questo testo nasce in contesto postesilico, in una comunità di sacerdoti, è chiaro che la interpretazione da dare è estensiva, tutto il popolo è familiare di Dio, può avvicinarsi a lui, godere della relazione personale e diventarne ministro di testimonianza. Nazione santa indica l’appartenere unicamente a Dio: la santità non è nelle azioni, nell’intestarsi un territorio circoscritto, ma nell’appartenere completamente a Dio (questa è la santità!). Dove sarà il popolo di Dio, là ci sarà la nazione santa, unica perché appartiene a Dio con l’ascolto e la custodia dell’alleanza. L’annuncio della alleanza però non può chiudersi senza Mosè… abbiamo cercato di riflettere sulla identità del popolo di Dio, popolo amato, lasciato libero di scegliere, protetto e chiamato alla alleanza con Dio e questo abbozzo di riflessione ci mette di fronte a quello che Dio vorrebbe per noi, quello che ci viene offerto nella alleanza, come la nostra identità di persone potrebbe essere plasmata, se riconoscessimo la alleanza preveniente che Dio ci ha donato, fin da prima che noi esistessimo. Mosè però può aiutarci a fare un ulteriore passaggio, nella rilettura/riscoperta/riscrittura della nostra identità: noi come ci sentiamo quando siamo di fronte alla offerta della alleanza? Quando scopriamo che la alleanza ha sempre preceduto la nostra esistenza? Come diventiamo quando ci scopriamo popolo e figli? Anche Mosè ha scoperto la prevenienza dell’amore di Dio di fronte al roveto ardente, rimanendone del tutto sorpreso (Es 3, 1-15) e lì è iniziata la sua missione, tra tante difficoltà e prove. Mosè è costituito profeta, ma non è esente da dubbi ed errori, come abbiamo visto sul cammino; in questo passo, Mosè è il tramite per il popolo, che già mostra con la sua vita come è cambiato, riconoscendo la alleanza. Non comunica solo loro la promessa della alleanza con Dio, è già lui nella sua vita un passo compiuto di quella alleanza… ed forse per questo che la sua morte sul Monte Nebo ci fa un così grande problema! Tutti guardiamo a Mosè come un buon esempio, una vita che si trasforma, che affronta grandi cambiamenti e azioni condannabili, che attraversa i campi del contendere, che tiene in sé due identità diverse, egiziano per cultura ed ebreo per nascita, finché non scopre di essere profeta di Dio… profeta del popolo chiamato da Dio (quanto mancano in questo racconto aspetti etnocentrici…). Mosè è il riferimento massimo del credente ebreo e non solo (Dt 34, 10-12) e il mancato ingresso nella terra promessa, a mio parere, dice molto di più sulla identità di Mosè, che non su altri aspetti (le colpe di Mosè, la vecchiaia e molte altre interpretazioni punitive…). Che cosa ci dice sulla identità di Mosè la sua morte sul monte Nebo, con lo sguardo rivolto alla Terra Promessa? Teologicamente, una nota di contesto: la morte di Mosè chiude la Torah. Tutto ciò che segue è scritto rivolto verso la Torah, perché questi 5 libri sono il centro della Scrittura per il popolo di Israele (ricordiamo che nella mentalità semitica, il futuro è alle spalle, perché è ciò che ho fatto che mi prepara ciò che accadrà…). Tutta la Scrittura guarda alla Torah e nella Torah tutto si rivolge questo momento… Che cosa ci dice sulla nostra identità la morte di Mosè?
Noi pensiamo spesso alla nostra identità come un nucleo che si costituisce dai nostri successi, dalle nostre conquiste, anche dalle cose buone che cerchiamo di fare, un piccolo tesoro di medagliette che dovrebbero luccicare consolanti, quando la vita ci mette alla prova e tutto diventa buio… e se invece la nostra identità si costituisse davvero come unica, come personale, come davvero diversa per ognuno, in relazione a quanto scopriamo che Dio ci ha già amati? Quanto Dio ha amato Mosè, ci è chiaro un po’ di più dopo queste riflessioni, quanto si è mostrato nella sua vita, quanto gli è stato vicino nelle prove? Fino al Monte Nebo, dove noi vediamo il vertice della missione, la conquista finale, il maggior successo in vita di Mosè, portare il popolo dall’altra parte del monte. Dove noi facilmente confondiamo i successi e le conquiste che ci aspettiamo dalla nostra vita con il vero dono che Dio ci ha fatto nella nostra vita, seguirla con il suo amore, sempre. È una conclusione non trionfalmente umana, non di successo visibile a tutti, la vita di Mosè si conclude nel mistero del suo luogo di sepoltura, ma con la certezza che Mosè ha potuto vedere la Terra Promessa: Mosè ha potuto vedere la sua vita trasformata dall’amore di Dio, è quella la sua terra promessa, è quello l’arrivo di vita del credente. Voltarsi indietro e vedere nel cammino compiuto la promessa di Dio realizzata, come solo Dio ha saputo fare, come noi non avremmo immaginato, tra le prove e le gioie. La identità di Mosè è compiuta, perché qui tutto ciò che ha fatto sarà consegnato alla sua discendenza. Lui non entrerà perché noi possiamo credere che la promessa di Dio non ha la connotazione del successo personale, ma del compimento personale, che solo noi possiamo riconoscere, che solo Dio ci dona.
E allora, se sapremo vedere questo nella promessa della alleanza, se sapremo cercare nella nostra vita l’amore preveniente e unico per ognuno di noi, ci costituiremo una identità personale e comunitaria, dove so che la mia storia di amore con Dio è la storia anche del mio fratello… e insieme potremo dire “quanto il Signore ha detto, noi lo faremo” (Es 19, 8). Per gli israeliti, un impegno; per noi cristiani, una promessa di cui abbiamo riconosciuto la verità in Cristo.